martedì 2 giugno 2009

RADICE PARTHENOPEA

Virgilio il Mago ascolta il ritmo del mare che diventa il metro della sua poesia. Il mare del Carmine, agitato e scuro, quello che non scherza, continuamente tormentato, storico e poetico, incline al ripensamento. Il mare del Molo dalle acque nere, smorto, dove nulla si riflette. Una linea d’acqua sporca tra navi cariche di grano e farina, il mare dei “viaggiatori d’affari” che partono senza un rimpianto. Il mare di Santa Lucia, azzurro, calmo e sicuro, quello del popolo, laborioso e fruttifero, amante e amato con cui vive e per cui vive il popolo napoletano. Il mare del Chiatamone, vastità deserta, scogli lacerati, piano d’acqua desolato e grigio che si estende quasi all’infinito poiché è lontanissima la curva dell’orizzonte; sulla riva rocciosa, il castello aspro nasconde il Vesuvio (l’amante furioso e traboccante di lava per la perdita di Capri). Mare fatto per i malinconici e per gli appassionati d’infinito. Il mare di Mergellina che ride e scherza con i bagnanti urlanti fra il comico spavento e l’allegria dell’acqua fredda, con i corpi che scivolano fra due onde e le braccia rotonde che si sollevano. E poi Posillipo, il mare dove finisce il dolore, punto massimo di ogni sogno, armonia tra mare e terra. E’ fatto per i poeti e i sognatori d’ideali che trasformano l’esistenza. Questo è il mare del golfo di Napoli, così come lo vede e lo racconta nel 1890 Matilde Serao nel suo scritto “Leggende Napoletane”, un libro ritrovato grazie alla mia materna radice parthenopea.

Nella sua introduzione, la Serao racconta come e perchè, da una sua novella/leggenda (donnalbina, donna Romita, donna Regina), sia nato poi il libro. 1 delle sue 2 ragioni (l’altra se vi va, andatevela a vedere) è dovuta al desiderio di prolungare ciò che per sua natura è finito. “Quando gli scrittori hanno scritto una breve cosa, che piaccia loro molto, per particolari ragioni o che abbia trovato molto compiacente il pubblico, vedono subito il libro. Sono come gli innamorati, gli scrittori, l’uomo ripugna dalle cose brevi, gli sembrano ignobili, lo rattristano, gli danno il senso della caducità di ogni cosa: l’uomo non si rassegna e combattendo contro la oscura volontà delle cose, cerca di prolungare la durata di quello che doveva esser finito. E si prolunga… Così gli scrittori. Lampeggia loro un’idea, una soave forma di arte sorride loro: e invece di sobriamente concentrarsi, essi vogliono dividere il lampo in cento fiammelle, essi tentano di suddividere il sorriso, malaugurati aritmetici, chimici sventurati! E scrittori e innamorati sarebbero più felici, se lasciassero morire tutto quello che deve morire; quanti mediocri libri di meno, quanti cuori spezzati di meno! Ma infine il mio peccato d’arte rassomiglia quello di tanti altri, di me migliori, e colui che, dopo aver scritto un sonetto, o una novella, o un romanzo non ha sognato la serie, il ciclo, colui solo ha il diritto di biasimarmi. Ahimè, non ve ne è nessuno forse!” (Matilde Serao)
E io aggiungo, meno male.