Quelli di Peter Schuyff (1958) sono quadri dipinti su altri quadri. Anonimi ritratti, paesaggi, croste scovate in mercatini e copie di celebri van Gogh o Vermeer che diventano pretesti e supporti di lavoro. Sono riciclati perciò ripresi, rielaborati, svuotati o sovraccaricati di dati, trasfigurati dai ritocchi, alterati da sovrapposizioni di segni astratti e invenzioni con conseguenti effetti di tridimensionalità. A motivare le sovrapposizioni (è Schuyff stesso che lo dice) è sempre l’affetto, non certamente il rispetto. Un misto di coinvolgimento e distacco, affezione e cinismo definisce i suoi interventi. Non è la fusione che vuole esprimere: l’opera nuova e la creazione sottostante non si fondono ma coesistono a due livelli diversi. Le sovrapposizioni non sembrano fatte per cancellare, nascondere o coprire bensì per impossessarsi dell’opera caratterizzandola. E così Schuyff trova il modo per lasciare il suo inconfondibile e irriverente segno.